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La Roccia spirituale


 

La Roccia spirituale 

 

Alcuni credenti leggono pochissimo l’Antico Testamento. Anzi, certi non lo leggono per niente, perché non lo ritengono “cristiano”. Eppure, prefiggendosi di leggere la Bibbia nell’arco di un anno, una persona è costretta, per otto mesi, a leggere l’Antico Testamento. La lettura del Nuovo Testamento, lo impegnerà solo per i restanti quattro mesi. La testimonianza degli apostoli, sulla necessità di studiare l’Antico Testamento, è decisiva. Leggiamo le parole che Paolo rivolse a Timoteo (2Timoteo 3:14-17).

·         Tu però persevera nelle cose che hai imparato e nelle quali sei stato confermato, sapendo da chi le hai imparate, e che sin da bambino hai conosciuto le sacre Scritture, le quali ti possono rendere savio a salvezza, per mezzo della fede che è in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura è divinamente ispirata e utile a insegnare, a convincere, a correggere e a istruire nella giustizia, affinché l'uomo di Dio sia completo, pienamente fornito per ogni buona opera

Paolo, scrivendo a Timoteo, testimonia la sua fede fondata sulle Scritture. La locuzione “Tutta la Scrittura” alla quale si riferiva Paolo, erano i 39 libri degli Ebrei: l’Antico Testamento. Per i primi cristiani essa era sufficiente per educare tutti coloro che volevano fare la volontà di Dio, per essere istruiti, corretti, e diventare uomini di Dio completi. E’ così anche per noi?

·         Or queste cose avvennero per servire da esempio a noi, affinché non siamo bramosi di cose cattive, come lo furono costoro… Or tutte queste cose avvennero loro come esempio, e sono scritte per nostro avvertimento, per noi, che ci troviamo alla fine delle età (1 Corinzi 10:6, 11).

Paolo ha narrato alcuni avvenimenti, occorsi al popolo d’Israele. Essi sono descritti nell’Antico Testamento, per ricordarci che esso è stato scritto anche per noi, perché ci votassimo alla santità, per non subire le stesse conseguenze del popolo d’Israele. Trascurare la lettura dell’Antico Testamento, significa privarci di grandi benedizioni, e limitare in grandissima misura la nostra comprensione del volere e dell’opera di JHWH.

In sintesi, descrivo le ragioni per le quali occorre leggere e meditare, l’Antico Testamento.

1) Perché è Parola di Dio.

2) Per una ragione di cronologia.

3) Per una ragione dottrinale.

4) Perché testimonia la Deità di Gesù che è il Tetragramma.

5) Perché serve per comprendere il Nuovo.

6) Perché gli insegnamenti spirituali non decadono.

7) Perché contiene profezie ancora inadempiute.

 

I primi cristiani, nei loro scritti, si rifacevano spesso ad episodi descritti nell’Antico Testamento. 

Paolo ricorda il fatto di Mosè, che si copriva il viso col velo (2Corinzi 3:13); l’autore della lettera agli Ebrei cita Melchisedec, almeno una decina di volte (Ebrei 7:1); Giuda richiama alla mente dei suoi lettori la triste fine delle città di Sodoma e Gomorra (1:7). Nella prima lettera ai Corinzi, nel capitolo dieci, l’apostolo Paolo descrive diffusamente alcuni eventi del popolo d’Israele, che troviamo narrati nella Torah, o Pentateuco. I primi cristiani evidentemente conoscevano questi episodi, e Paolo coglie lo spunto per ammonire i credenti affinché non provocassero Gesù Cristo, come fecero gli ebrei durante i quarant’anni nel deserto. Forse per noi, questo accostamento suona strano, ma evidentemente i primi cristiani sapevano bene che JHWH è Gesù Cristo. 

A mio dispiacere, attualmente, invece, per molti non è più così. Leggiamo il brano in merito.

·         Ora, fratelli, non voglio che ignoriate che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola e tutti passarono attraverso il mare, tutti furono battezzati per Mosé nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale, e tutti bevvero la medesima bevanda spirituale, perché bevevano dalla roccia spirituale che li seguiva; or quella roccia era Cristo. Ma Dio non gradì la maggior parte di loro; infatti furono abbattuti nel deserto, Or queste cose avvennero come esempi per noi, affinché non desideriamo cose malvagie come essi fecero, e affinché non diventiate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: "Il popolo si sedette per mangiare e per bere, e poi si alzò per divertirsi". E non fornichiamo, come alcuni di loro fornicarono, per cui ne caddero in un giorno ventitremila. E non tentiamo Cristo, come alcuni di loro lo tentarono, per cui perirono per mezzo dei serpenti (1Corinzi 10:1-9).

 

Gli episodi, relativi al popolo d’Israele, descritti da Paolo, si trovano nei libri dell’Esodo e dei Numeri. Spesso, l’interpretazione che si fa di questo testo, è simbolica poiché Paolo parla di un “cibo spirituale”, di una “bevanda spirituale”, di una “roccia spirituale” che è Cristo.

Interpretare simbolicamente un testo, può essere legittimo. Nel Salmo 91, leggiamo che, chi confida nell’Altissimo, sarà coperto dalle “penne” di Dio, e sotto alle sue “ali” troverà rifugio. L’immagine evocata dal salmista, chiaramente, serve per far comprendere che Dio proteggerà coloro che cercano riparo in Lui. Il lettore non si ferma al significato letterale, ma coglie il messaggio simbolico che l’immagine vuole evocare. Così, facendo una lettura simbolica degli episodi citati da Paolo, il lettore è portato, non tanto a considerare gli avvenimenti descritti nel brano, quanto a cogliere, più che altro, la morale suggerita dagli avvenimenti. Il tal modo, il lettore non afferra ciò che Paolo vuole trasmettere.

 

Facendo una lettura metaforica di questo brano, noi siamo costretti ad interpretare gli avvenimenti in senso simbolico. Questo non è possibile, perché gli avvenimenti, descritti da Paolo, sono successi letteralmente come descritti: gli Israeliti mangiarono veramente la manna, bevvero veramente dell’acqua scaturita dalla roccia. Dobbiamo, quindi, interpretare tutto il brano in senso letterale. Il popolo d’Israele mangiò del pane vero e proprio, definito “spirituale”; esso bevve dell’acqua vera e propria, definita “spirituale”; era, infine, seguito da una roccia vera e propria, definita “spirituale”.

 

Per la nostra cultura, lo “spirituale” si contrappone al “materiale”. Noi definiamo l’amore spirituale, e un tavolo materiale; anima, la parte spirituale dell’uomo, corpo, la parte materiale. Lo spirituale è, per definizione, etereo, incorporeo; il materiale, è tutto ciò che impressiona i nostri cinque sensi. Così, considerando gli avvenimenti, descritti da Paolo, in senso allegorico, noi traiamo dalla lettura solo un insegnamento morale, tralasciando i fatti successi. Questo è sbagliato, perché tutto ciò che Paolo ha descritto, è successo letteralmente. La manna sfamò fisicamente gli Israeliti, e, così, l’acqua dissetò il popolo d’Israele. Paolo, quindi, stava trasmettendo qualcosa di molto più importante di un mero insegnamento morale. Poiché gli episodi citati da Paolo sono realmente avvenuti, non è corretto pensare che l’apostolo volesse trasmettere delle verità morali trascurandone il presupposto storico. Anzi, le verità morali non possono essere comprese rettamente, se prima non si sono compresi gli episodi realmente accaduti, che le sottintendono. Interpretando erroneamente la realtà, non posso comprenderne, in modo corretto, l’insegnamento spirituale. Se, nella parabola del seminatore, vedo, non un uomo che semina, ma uno che scava una fossa per piantarvi il seme, non comprendo come il seme possa cadere in vari posti. L’interpretazione spirituale della parabola, quindi, risentirà gravemente di questo mio errore. Ne consegue quanto, definire esattamente il significato del termine “spirituale”, sia indispensabile per non collocarlo, erroneamente, nell’ambito di ciò che è immateriale e simbolico.

 

La teologia dell’apostolo Paolo non lascia dubbi: ciò che è spirituale appartiene alla materia. Mettendo in contrapposizione l’uomo naturale, o carnale, con l’uomo spirituale, l’apostolo Paolo si riferisce a persone vive e vegete fisicamente. La differenza non sta nella sostanza, nella materialità o meno, ma agli ambiti d’appartenenza. L’uomo carnale è colui che vive e agisce sotto l’impulso della natura umana corrotta; l’uomo spirituale è colui che è condotto dallo Spirito Santo. L’uomo carnale è colui che non ha subito una trasformazione spirituale;l’uomo spirituale è colui che è nato da alto, che è passato dalla morte alla vita. L’uomo carnale appartiene a se stesso; l’uomo spirituale appartiene allo spirito, ed è, da questo, condotto. Ciò che è spirituale non ha, quindi, a che fare con il simbolo, con ciò che è, quindi, figurativo. Anche in greco, i due termini differiscono.

L’aggettivo pneumatikos indica, espressamente, ciò che è proprio dello Spirito, ciò che è condotto dallo Spirito. Il sostantivo typos significa, invece, forma, figura, immagine.

Dobbiamo, quindi, interpretare il cibo e l’acqua spirituali degli israeliti, non in senso simbolico, bensì come cose reali, derivanti da un intervento di Dio. Il popolo di Dio ha soggiornato nel deserto per quarant’anni, trovando dell’acqua a Mara; attraversato il Giordano, essi trovarono dodici sorgenti e settanta palme; mangiarono dei cibi, ma non erano “spirituali”, perché erano alla portata di tutti e non dovuti ad un intervento divino.

 

Tutto questo è accettabile, ma come comprendere l’affermazione di Paolo che la “Roccia spirituale” era Cristo? Una roccia non è forse, come definisce il vocabolario, “un aggregato minerale che costituisce la parte più dura e coerente della crosta terrestre?”. Riferita a Cristo, una tale espressione, non deve essere intesa in senso simbolico? Paolo stava scrivendo a dei credenti che conoscevano le Scritture, la Torah. I Corinzi sapevano che, nel capitolo 32 del libro del Deuteronomio, JHWH Dio, veniva chiamato “Roccia”. La parola “Roccia”, in quell’occasione, non era tanto un attributo, ma un sostantivo, esso costituiva un nome attribuito a JHWH stesso. Infatti, anche la LXX, traduce “Roccia” con “Dio” o con “Signore”. Non soltanto nei versetti citati, ma in tutto il cantico, al posto di “Roccia”, i LXX traducono i Nomi del Dio d’Israele. Una dimostrazione, che la parola Roccia non sia un attributo, è data dal fatto che i traduttori l’hanno scritta con la erre maiuscola (Deuteronomio 32:4, 13, 15, 18, 30, 31). Affermando che la roccia spirituale era Cristo, Paolo voleva intendere che nel deserto, con il popolo d’Israele, vi era Cristo. In effetti, Cristo era pneumatikos, cioè, era una realtà, o una manifestazione, della sua attività. La roccia “spirituale” che li accompagnava era, dunque, la presenza corporea di Cristo.

 

Ecco riportato il commento di Enrico Bosio, riguardo al passo di 1Corinzi capitolo 10: “… gl’Israeliti sono stati provveduti d’acqua e che dovettero questo alle cure costanti di Colui che Mosè stesso chiamò “la roccia della salvezza” d’Israele (Deuteronomio 32:15,18; Conf. Isaia 30:29; 26:4); e che Paolo nomina addirittura Cristo. Difatti, secondo lui, la persona divina che accompagnava il popolo nel deserto, l’Angelo della Faccia, l’Angelo di Dio, del Patto, l’Eterno, l’autore delle Teofanie non era altri che il Figlio di Dio, il quale, prima d’incarnarsi, presiedeva all’Economia della Salvazione. Egli era la vera roccia spirituale, soprannaturale, che seguitava Israele e provvedeva ai suoi bisogni. (Enrico Bosio – Le Epistole ai Romani I-II Corinzi - Claudiana). Fa coro Leon Morris, citando Conzelmann: “l’uso di “era” … indica una preesistenza reale”. (Leon Morris – La prima Epistola di Paolo ai Corinzi – Edizioni GBU). Il professore di Critica Biblica F.F. Bruce (1910-1991) commenta così il nostro passo. “Per lui (Paolo) la roccia materiale era il simbolo di una realtà spirituale, la realtà spirituale della presenza di Cristo: “la Roccia”, dice “era Cristo”. Era Cristo, in altre parole, che seguiva il suo popolo nel deserto..” – (Gesù ieri, oggi e domani)

 

Per i primi cristiani, l’identificazione di Cristo con JHWH, nell’Antico Testamento, era cosa ovvia. Se, per noi, non lo è, ciò è dovuto certamente ad una mancanza di conoscenza, derivante da un’errata trasmissione della fede, o da una nostra insufficiente percezione di essa. Non solo. Anche i traduttori della Bibbia sono colpevoli, perché non sempre hanno tradotto correttamente il testo greco. La traduzione inesatta, al versetto nove, del capitolo dieci, di 1Corinzi, versione Nuova Riveduta, offusca la presenza di Cristo nella Torah.

Per approfondimenti:

http://saldinelladottrina.blogspot.com/2018/07/testimonianza-di-cristo-nellantico.html

La Nuova Riveduta traduce così il testo di 1 Corinzi 10:9: “Non tentiamo il Signore, come alcuni di loro lo tentarono, e perirono, morsi dai serpenti”.

La Nuova Diodati, invece, fedele al greco, rende: “E non tentiamo Cristo, come alcuni di loro lo tentarono, per cui perirono per mezzo dei serpenti”.

Tradurre “Signore”, al posto di “Cristo”, non trasmette esattamente il pensiero di Paolo. Il sostantivo “Signore” (che da molti può essere considerato aggettivo), induce nel lettore ad avere un’idea vaga di Dio. Usando, invece, il sostantivo “Cristo”, comprendiamo, inequivocabilmente, che gli ebrei nel deserto tentarono proprio la persona di Cristo, e non Dio, inteso nella sua pluralità come Teos, o Elohim. Evidentemente, il traduttore non ha afferrato l’importanza di questa precisazione. Ciò, induce a pensare che molti, come lui, non abbiano percepito che Cristo fosse presente corporalmente nell’Antico Testamento.

 

Anche la traduzione di un’affermazione dell’apostolo Giuda, nella relativa lettera, mette in evidenza i limiti dei traduttori.

·         “Or voglio ricordare a voi, che già conoscevate tutto questo, che il Signore, dopo aver salvato il suo popolo dal paese di Egitto, in seguito fece perire quelli che non credettero (Giuda 5).

 

I testi più antichi, risalenti al IV e V secolo, al posto di “Signore”, portano scritto Gesù, Cristo, Dio Cristo, Dio. I Codici Vaticano e Alessandrino, e molte versioni antiche, riportano “Gesù salvò il popolo dall’Egitto”. Queste versioni, mettono in evidenza che è stato Cristo a salvare il popolo dell’Eterno dall’Egitto, e non un vago “Signore”. Una traduzione corretta di questi passi, c’informa, al di là d’ogni dubbio, che Cristo è l’autore materiale della liberazione del popolo d’Israele.

 

Questa coscienza della presenza di Gesù nell’Antico Testamento faceva sì che i primi cristiani ebrei scrivessero in un modo che a noi potrebbe risultare strano.

·         Per fede Mosé, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del Faraone scegliendo piuttosto di essere maltrattato col popolo di Dio che di godere per breve tempo i piaceri del peccato, stimando il vituperio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori di Egitto, perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa (Ebrei 11:24-26).

La domanda più ovvia è: “Come ha fatto Mosè a stimare il vituperio di Cristo maggiore delle ricchezze d’Egitto, se non Lo conosceva? E’, anche questa, un’espressione da interpretarsi in senso simbolico, o l’autore della lettera voleva veramente intendere che Mosè conosceva Cristo? Alla luce di quanto abbiamo considerato, Mosè scelse veramente di essere disprezzato, per amor del Cristo che vedeva, e con il quale parlava (Esodo 33:11), anziché godere i fugaci piaceri terreni.

Essendo, dunque, la suddetta “roccia spirituale”, la persona reale, corporea, di Cristo, proveniente dall’alto, consegue che l’uomo spirituale sia, dunque, il credente nato di nuovo, o da alto, e condotto dallo Spirito. Quest’aspetto getta luce su di un equivoco intrinseco al nostro modo di parlare. Un credente, che compia qualcosa di straordinario, come dei miracoli, o un gesto insolito di perdono, d’amore, solitamente, viene definito un uomo “spirituale”. Riteniamo un “uomo spirituale”, colui che “non abbandona la comune adunanza”, che legge con assiduità la Bibbia, che prega sovente e regolarmente, che si appresta a servire la chiesa. L’uomo spirituale è colui che si comporta bene; egli è tale in base alla sua condotta. Con questa valutazione abbiamo spostato l’obiettivo dall’essere, al fare. L’uomo spirituale non è colui che opera; ma, colui che è. Colui che è nato di nuovo, e vive, condotto dallo Spirito Santo. Di conseguenza, l’uomo spirituale non agisce condotto dai propri istinti, dalla propria emotività, dalla natura umana, che essendo corrotta, non può piacere a Dio; ma, egli è sottoposto all’azione dello Spirito di Cristo, non contrastando, e non contristando, lo Spirito Santo. L’uomo spirituale è uno pneumatikos, colui che vive in questo mondo, che ha contatto con la realtà materiale di questa vita ma l’affronta con la mente, e lo sguardo, di Cristo.

 

Con questa prospettiva un giorno in cielo cadranno tante teste e tanti castelli in aria. Molte persone che saranno state lodate e applaudite su questa terra nel campo della fede si vedranno rinnegate da Cristo perché “ciò che è eccelso davanti agli uomini, è in abominio davanti a Dio”. Se si credesse a questa sola verità, i “credenti” sarebbero più schivi nei confronti dell’approvazione della folla. Non solo. Molti di coloro che oggi si professano cristiani, verranno svergognati nel giorno di Cristo per aver compiuto opere di “gran volume” (paglia, fieno, legno) non prodotte dallo Spirito Santo. L’uomo spirituale lascia che lo Spirito di vita agisca quotidianamente portando i frutti dell’amore, della pace, della gioia, della fedeltà, della mansuetudine, dell’autocontrollo, mentre l’uomo carnale cerca di piacere a Dio con i propri sforzi mediante le sue opere. I frutti sono la naturale conseguenza della Vita che scorre in un individuo, le opere sono il risultato dello sforzo umano. Buona la riflessione di Watcman Nee. “Molti cristiani…hanno imparato a considerare le cose del cielo come qualcosa da raggiungere, perciò per loro il cristianesimo è uno sforzo; cercano di essere quello che non sono e di fare quello che non possono fare. Combattono per non amare il mondo perché in realtà nel cuore lo amano; si sforzano di essere umili perché nel cuore sono molto sicuri di sé” 

 

Sono pochi coloro che sono condotti dallo Spirito. Se per i cristiani fosse la regola essere condotti dalla Persona dello Spirito Santo, essi sperimenterebbero una vita vittoriosa e le chiese realizzerebbero un’abbondanza di gioia e di comunione. Dobbiamo chinare il capo davanti alla dura realtà. Non essendo costretti da persecuzione, e da altre contingenze negative, il credente singolo, e le chiese, mostrano il loro volto naturale, carnale. Si curano gli aspetti esteriori (preghiere, lettura della Bibbia, riunioni), ma si rinnega la potenza spirituale. Vi è molta forma, e pochissima sostanza. Si è imparato a condursi da cristiani, senza però esserlo. Affermiamo di essere in comunione con Dio, pur camminando nelle tenebre. Non ci rendiamo conto che la Parola di Dio ci dichiara dei bugiardi perché non è possibile amare Dio, che non vediamo, e non amare il prossimo, che ci sta attorno. Perché il credente, e le chiese, siano condotte dallo Spirito, occorre che entrambi confessino la loro mancanza di comunione con Dio (siamo, generalmente, disposti a dichiarare tutto, ma non questo) e camminino nella luce, cioè nell’amore. Solo così, i cristiani avranno comunione gli uni con gli altri.

 

La Roccia spirituale è la matrice. L’uomo spirituale, per definirsi tale, deve essere a immagine della Roccia. Gesù Cristo ha vissuto tra gli uomini come uomo. Ha avuto compassione verso gli ignoranti, e parole dure per coloro che si reputavano sapienti. Ha perdonato chi si riconosceva peccatore e mancante; è stato intransigente con chi pensava d’essere autosufficiente. Ha salvato gli umili; è stato inesorabile con gli orgogliosi. Ha servito, per dare un esempio di cosa fosse amore; ha imposto, per stroncare personalità forti. Ha risposto alle domande oneste; non ha degnato di una risposta chi voleva ingannarlo. E’ stato pietoso verso l'uomo pio; retto verso l'uomo retto; puro con i puri, ma astuto con il perverso. Questo modo di procedere, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ha prodotto confusione in chi voleva classificarlo ed etichettarLo. Così, è di chi sia condotto dallo Spirito Santo. “Lo Spirito soffia dove vuole e tu ne odi la voce, ma non sai da dove viene né dove va, così è per chiunque è nato dallo Spirito". L’uomo spirituale non ha il futuro programmato, non ha atteggiamenti e discorsi preconfezionati, non si muove sempre in accordo con i canoni sociali, non pretende di essere compreso, non cerca di piacere agli uomini: la sua grande aspirazione è quella di essere completamente sottomesso all’azione dello Spirito Santo, per piacere a Colui che lo ha comprato a caro prezzo. In definitiva, l’uomo spirituale non si comporta in modo “spirituale” (mistico, ascetico): egli è colui che ha compreso che la sua natura è malvagia, e avendone una terribile paura, si abbandona, senza condizioni, alla voce della Persona dello Spirito di Dio non contristandoLa, né spegnendoLa. 

Questa è la vita NORMALE del cristiano.

 




Come interpreti la Bibbia?



 

Errori interpretativi

Mi trovo costretto affrontare in poche righe alcuni errori di interpretazione della Bibbia che trovo in tanti libri divulgativi scritti da famosi teologi e scrittori. Sembra una cosa strana, ma una volta che si è battuto un certo sentiero in una folta boscaglia, sembra che tutti preferiscano seguire quelle orme. Da un lato è comprensibile perché non ci si espone a dover affrontare novità, dall’altro, se il sentiero è sbagliato, tutti continuano a sbagliare. Così, per quanto riguarda la Parola di Dio, vi sono stati credenti che secoli addietro hanno interpretato alcuni passi biblici, i quali in seguito, misteriosamente, hanno continuato a esser interpretati dai credenti delle generazioni future nella stessa maniera. Ho ancora presente un fratello a cui feci notare che stava interpretando, come tanti altri, un passo evangelico in modo errato. Accortosi dell’errore, si mise le mani sulla faccia dicendo: “Mio Dio! Ho sempre letto ciò che avevo nella mente”. Ora, se a sbagliare fossero dei credenti alle prime armi con la Parola di Dio, non mi stupirebbe più di tanto, ma poiché continuo a leggere errori interpretativi scritti da teologi di fama mondiale, trovo opportuno da parte mia fare anche un solo piccolo accenno per vedere se sia possibile arginare questo “passa parola” sbagliato. Prima di entrare in merito agli errori che si trasmettono nel leggere la Bibbia, è bene ricordare che non siamo i primi a comprendere malamente la Parola di Dio. Nei vangeli leggiamo che quando Gesù disse ai discepoli di vendere il mantello per comprarsi una spada in caso che non l’avessero, i discepoli, che da vari anni lo seguivano, avevano compreso che Gesù volesse intendere una spada vera e propria. Inoltre, quando Gesù rispose a Pietro che Giovanni sarebbe rimasto finché Lui fosse venuto, si sparse tra i fratelli l’erronea voce che quel discepolo non sarebbe morto. Anche l’apostolo Paolo fu frainteso nelle sua lettere. Quando scrisse ai credenti di Tessalonica in merito al ritorno di Cristo, i Tessalonicesi compresero che Cristo sarebbe tornato subito, e Paolo dovette scrivere una seconda lettera per correggere la loro opinione. Perciò, fraintendere ciò che leggiamo nella Parola di Dio non è né unico né malvagio, si tratta solo di essere degli umani soggetti a sbagliare. E’ con questo spirito che prendiamo in esame gli errori interpretativi più comuni che i credenti commettono quando leggono la Parola di Dio. 

 

L’errore più frequente che ho trovato nei testi che commentano la Bibbia, è in riferimento al sudore che Gesù versò nel Getzemani. Ecco cosa leggiamo nel vangelo di Luca. “Ed essendo in agonia, egli pregava ancor più intensamente; e il suo sudore diventò come grosse gocce di sangue che cadevano in terra”. E’ opinione comune interpretare che Gesù abbia sudato del sangue, altri suppongono che il sudore di Gesù fosse mescolato con del sangue, ma anche una lettura superficiale del testo senza preconcetti, mette in evidenza che Gesù nel Getzemani non sudò sangue, bensì che il suo sudore diventò grosso come delle gocce di sangue. Con questa descrizione, Luca ha voluto mettere in enfasi non la sostanza del sudore, ma la sua grossezza, per dimostrare quanto Gesù soffrisse.

 

Un altro errore interpretativo comune a molti è quello in merito allo Spirito Santo che si ferma su Gesù nel momento del Suo battesimo. “Giovanni rese testimonianza, dicendo: «Ho visto lo Spirito scendere dal cielo come una colomba e fermarsi su di lui”. Condizionati molto probabilmente da certe raffigurazioni dei pittori, si pensa che lo Spirito Santo avesse assunto la forma corporea di una colomba, e questo perché Giovanni potesse vedere lo Spirito Santo. Ma la descrizione che ne fa l’evangelista Giovanni è che lo Spirito Santo assunse sì una forma corporea, ma con questa forma corporea si posò su Gesù con la dolcezza di una colomba. L’enfasi della Parola di Dio non è tanto sulla forma, ma la dolcezza con la quale si posò lo Spirito Santo.

 

Questi due errori interpretativi hanno un punto in comune: la parola - avverbio come. Questo termine non significa che il soggetto in questione sia ciò che segue, ma serve per fare un paragone tra una cosa e un’altra, esprime un rapporto di somiglianza o di identità. Se non si tiene conto di questo aspetto, i credenti fanno lo stesso errore di una sedicente setta che associa l’affermazione dell’apostolo Pietro che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno, con ciò che disse l’Eterno ad Adamo in merito al frutto proibito, che nel giorno che lo avrebbe mangiato sarebbe morto. Questa setta ha concluso che poiché un giorno è come mille anni, perciò Adamo è morto entro mille anni, cioè a 930. Interpretazione, questa, veramente senza senso. 

 

Un altro grande errore interpretativo della Parola di Dio trascinato nel corso dei secoli, causato, questa volta, dai traduttori, è quello in merito alla costola di Adamo. Leggiamo l’episodio in questione: "L'Eterno DIO fece cadere un profondo sonno sull'uomo, che si addormentò; e prese una delle sue costole, e rinchiuse la carne al suo posto. Poi l'Eterno DIO con la costola che aveva tolta all'uomo ne formò una donna e la condusse all'uomo". Poiché l’uomo non ha una costola in meno rispetto alla donna, le ipotesi sono due: o il racconto è solo un'allegoria, per cui non ha importanza che l’Eterno abbia tolto una costola ad Adamo per formare Eva, oppure siamo di fronte ad un enigma insolubile. Sono invece del parere che il traduttore abbia tradotto in modo imperfetto la parola che in ebraico sta per costola. Tenendo presente che il maggior numero di volte il significato con cui viene tradotta la parola ebraica tselàh è un fianco, un lato, una parte, la descrizione della creazione di Eva va più probabilmente letta così: "Allora l'Eterno DIO fece cadere un profondo sonno sull'uomo, che si addormentò; prese una parte di lui e rinchiuse la carne al suo posto. Poi l'Eterno DIO con la parte che aveva tolta all'uomo ne formò una donna e la condusse all'uomo." Dunque, Cristo non prese una costola ad Adamo, cioè un osso, ma una parte delle sua carne e con la quale formò Eva.

 

Altro errore molto comune perché dovuto al nostro modo di esprimerci è quello della prima pietra.

Così leggiamo nel vangelo di Giovanni quando Gesù prese le parti della donna adultera: "E, siccome continuavano a interrogarlo, egli, alzato il capo, disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei.» Proprio perché viene letta con superficialità, questa famosa frase di Gesù è spesso citata e commentata scorrettamente. Sappiamo infatti che in Deuteronomio Dio aveva dato precise disposizioni a Mosé riguardo la lapidazione: "la tua mano sia la prima a levarsi su di lui, per metterlo a morte; poi venga la mano di tutto il popolo" (De 13:9).

L’insegnamento di Gesù non è che il diritto di scagliare la pietra era unicamente di chi non aveva peccato, ma con le sue parole egli voleva soltanto invitare il proprio uditorio a un auto esame, dopo il quale chi avesse trovato se stesso senza peccato avrebbe potuto scagliare la prima pietra.

 

Altro grande errore che passa di bocca in bocca tra la gente è l’interpretazione dell’affermazione ormai nota di Gesù di porgere l’altra guancia: "Io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra." L'ordine datoci da Gesù di porgere l'altra guancia è stato incompreso, di conseguenza anche mal insegnato. L’Eterno non ha ordinato di non fermare mai il male o il malvagio, altrimenti nessun cristiano difenderebbe le proprie ragioni in nessun campo, contravvenendo in questo modo a ciò che invece la Scrittura invita a fare quando è opportuno” (Proverbi 25:9; Isaia 1:17). Visto nel suo contesto, questo comandamento di Gesù si riferiva al campo spirituale: poco prima avvertiva i Suoi discepoli che sarebbero stati perseguitati, e qui li stava invitando a non far valere le proprie ragioni e a non fermare il malvagio sotto persecuzione, lasciando a Dio la vendetta e la giustizia. Questo ordine rientra nell’accettare la sovranità di Dio, perché: "Se vedi nella provincia l'oppressione del povero e la violazione del diritto e della giustizia, non te ne meravigliare; poiché sopra un uomo in alto veglia uno che sta' più in alto, e sopra di loro sta un Altissimo" (Ecclesiaste 5:7-8). Gesù stesso realizzò quanto aveva ordinato perché quando fu "maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca" (Isaia 53:7).

 

Altro errore interpretativo in merito alla Parola di Dio è il tributo che spetta a Cesare.

Quando qualcuno chiese a Gesù se era lecito pagare le tasse, Gesù rispose: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio». Poiché questa risposta di Gesù continua ad essere letta frettolosamente, si insegna che bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare e dare a Dio ciò che è di Dio, senza considerare che Gesù ha detto di rendere e non di dare. Il verbo usato da Gesù è significativo. Si può dare a qualcuno ciò che si possiede, ma si può rendere solo ciò che non ci appartiene. Solo quello che spetta al legittimo proprietario è da rendere, cioè da restituire. Così l’uomo non avendo nulla di suo in questo mondo perché nulla vi ha portato quando è entrato, come nulla porterà via quando ne uscirà, può essere solo un amministratore dei beni che Dio gli elargisce. Da sempre Dio ha stabilito delle autorità che governassero gli uomini, comandando la sottomissione verso di questi e l’obbedienza verso le leggi da essi emanate; principio, questo, universalmente valido in ogni campo. L’uomo, afferma in sintesi Gesù, è tenuto a restituire all’autorità la posizione conferitagli da Dio, come, per esempio, con il pagamento delle tasse, ma senza scordare che Dio vige quale autorità assoluta anche in campo politico. Così l’obbedienza all’uomo, come la posizione di autorità di un uomo sugli altri uomini, non deve mai far dimenticare colui che è assolutamente al di sopra di tutti.

 

Infine, prendiamo in esame un ultimo errore interpretativo. 

Ne esistono ancora svariati ma non è possibile considerarli tutti. Questo errore generalmente si compie su di un altro ordine di Gesù: "Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più"

Molte persone nel predicare su questo passo, concludono che Gesù abbia promesso, a chi cerca prima il regno di Dio, che tutte le altre cose gli saranno sopraggiunte. Gesù non dice tutte le altre cose ma tutte queste cose, riferendosi a quelle di cui stava parlando, ovvero quelle di primaria importanza: il mangiare, il bere e il vestire. Egli non ha mai promesso di rendere la vita di chi cerca prima il Suo regno, prosperosa e ricca di ogni sorta di beni, ma solo che gli avrebbe fornito gli strumenti necessari per vivere. 


Dopo questo breve sguardo su alcuni errori interpretativi della Parola di Dio che vengono tramandati da secoli, chiediamo con umiltà il dono di comprendere ciò che è scritto e non ciò che desideriamo, o presupponiamo sia scritto.

Io Sono





 Io sono

 

E’ stato un colpo di fulmine. Stavo studiando la persona di Gesù Cristo quale Figlio di Dio, e pensavo ad un esempio per dimostrare che questa preposizione non significa che Dio abbia un Figlio, altrimenti Gesù Cristo sarebbe sì dio, ma un dio inferiore, come sostengono alcuni dei detrattori della fede cristiana. Gesù Cristo è Figlio di Dio in relazione alle altre due Persone della Trinità, ma non in quanto a Natura. Gesù Cristo è partecipe della natura eterna, perfetta, santa, del Padre e dello Spirito Santo e per questo è Dio, ma, rapportandosi con le altre Persone della Deità, ha assunto una relazione di figliolanza, di sottomissione.

 Questa è la fede dei cristiani da sempre. 

Spiegare una simile dottrina e realtà all’interno della Deità non è facile, perciò volevo trovare un esempio per far comprendere questa professione di fede. Ad un tratto, ho pensato che l’esempio più efficace sarebbe stata la mia persona. Il mio nome è Domenico- per tutti: Mimmo; nome che mi è stato dato alla nascita. Così, quando mi chiamano mi identificano con questo nome. Però, questo non è l’unico con il quale sono definito. A volte mi si attribuisce l’appellativo di figlio, marito, padre, zio, ecc,ecc. Mentre il primo nome, Mimmo, è il vero e proprio, gli altri, figlio, marito, padre, nonno, sono generici e comuni. Mentre il primo nome si riferisce alla mia persona, gli altri nomi si riferiscono al mio rapporto con gli altri. Sono marito in relazione a mia moglie, sono figlio in relazione a mia madre, sono padre in relazione a mio figlio, sono nonno in relazione ai miei nipoti. Ma io non sono né figlio, né marito, né padre, né nonno, nè zio. 

E’ come il presidente della repubblica. Egli non è il presidente della repubblica, ma svolge la funzione di capo dello stato. Se io fossi un figlio, il giorno in cui mi muore mia madre io non sono più un figlio? Ho perso, sì, la relazione di figliolanza a livello umano, ma io continuo ad esistere e a essere quello che sono. E allora, chi sono io? Se tutti morissero e io rimanessi solo e, per questo non potessi avere nessuna relazione col prossimo, chi sono io, se ad attestare la mia identità fosse solo la mia relazione con gli altri? Chi sono, dunque? Io… io sono. Punto e basta. 

Sono figlio, marito, padre, nonno, solo in rapporto con gli altri, ma ancor prima, io ero io, esistevo, mangiavo, bevevo, dormivo, anche senza queste relazioni. Se vogliamo, non sono neppure Mimmo, perché questo è solamente un nome che mi è stato imposto; avrebbero anche potuto impormi il nome di Carlo o Giovanni. E allora, chi sono? Come ho detto, sono io, cioè io sono. Non vi è nulla da aggiungere, perché ogni aggiunta a tale affermazione non farebbe altro che mettere in evidenza la mia relazione con gli altri. Il solo fatto di esistere, già di per sé, è sufficiente per dar valore al mio essere.

 

Tutto ad un tratto ho preso coscienza, ho avuto la consapevolezza di una realtà che mi era sfuggita. Io sono. Stupendo! Io, sono io, sia nel dolore, sia nella gioia, sia nel benessere, sia nella povertà, nell’umiliazione e nella gloria, quando cammino, lavoro, mangio, penso. Non ho bisogno di nulla per essere quello che sono, non ho bisogno degli altri per realizzare la mia individualità, non c’è nulla e niente che possa togliermi ciò che sono. 

Perché io sono ciò che sono. 

Questo mi basta

Mi sento compiuto. 

Realizzato. 

Appagato. 

Così, il mio relazionarmi come figlio, marito, padre, nonno, e ogni altro tipo di rapporto con il prossimo, non toglie e non aggiunge nulla a ciò che io sono. Sono rapporti importanti, indispensabili su questa terra, ma rimangono confinati come relazioni che possono mettere in evidenza le mie caratteristiche di persona, del mio io, ma non indispensabili per stabilire o valorizzare il mio essere. 

Proprio perché non è stato compreso questo aspetto, la maggioranza dell’umanità ha fallito miseramente nella propria esistenza. C’è chi si crede realizzato solo quando ha raggiunto un certo benessere, chi si identifica con la propria professionalità, chi nella notorietà, c’è chi si sente realizzato quando raggiunge l’obiettivo segreto del suo cuore. Succede così che quando queste cose vengono meno, c’è chi perde lo scopo della sua esistenza, tutto e tutti diventano vani e inutili, e c’è chi arriva all’atto estremo togliendosi la vita. Trovandosi senza queste cose per loro indispensabili, manca qualcosa al loro io. Sono eternamente insoddisfatti. Queste manifestazioni mettono in evidenza che queste persone non fossero coscienti che il loro valore consiste nel fatto di essere delle persone, ma si identificavano in quello che avevano, o nella reputazione del prossimo. 

Milioni di persone vivono con pesi morali inauditi e nascosti solo perché sono state colpevolizzate, si sentono inutili, vane, e non vi è via d’uscita per loro se non prendere coscienza che il loro valore consiste nel fatto che esistono, che sono qualcuno, che sono un… io sono. Proprio perché esistono, proprio perché sono state create, esse fanno parte delle benedizioni e ricchezze del creato, come lo sono una foglia, un filo d’erba. Se mancasse quel filo d’erba, quella foglia, nessuno se ne accorgerebbe solo perché noi siamo limitati; ma essi occupano il loro posto, posto che non può esser sostituito da qualcuno, o qualcos’altro. Il valore sta nel loro essere, nella loro presenza, non nella loro funzione. Se questo lo è per ciò che non dura, quanto più lo è per una creatura umana!

 

Queste riflessioni e prendere coscienza dell’io sono, di essere, per associazione di idee mi hanno ricordato un episodio unico nel suo genere. 

Quando JHWH si presentò a Mosé nel pruno ardente, gli disse di essere la Divinità dei suo padri. 

Mosé, non contento di questa vaga presentazione, non contento di sapere solo che tipo di rapporto aveva instaurato con i suoi padri, gli chiese il nome, che per la mentalità ebraica significava chiedere chi era. Per la prima volta, la Divinità d’Israele già rivelata agli uomini, espresse la sua identità, dicendo: "IO SONO COLUI CHE SONO".

 E’ vero che il verbo ebraico ha due tempi: uno perfetto, che indica azione già compiuta, e uno imperfetto, o futuro, che indica azione da compiersi, perciò alcuni traduttori preferiscono rendere Io sarò quello che sarò; ma, comunque sia, la risposta dell’Eterno è stata volta a esprimere chi era, a riferire la sua natura, la sua identità, senza riguardare alla propria funzione. Rivelò l’essere, quindi, non l’operato. Fino a quel giorno, infatti, la divinità del popolo d’Israele si era rivelata in conformità alla relazione che aveva con gli uomini; per questo ad Abrahamo si rivelò quale Dio Onnipotente (El Shaddai), o il Dio per sempre (El Olam), ma mai come Colui che è, per il solo motivo che è

In nessuna cultura, in nessuna religione, vi è mai stata una divinità che si è espressa in questo modo; anche perché, tra l’altro, si tratta divinità inesistenti; divinità, create dalla mente umana. Questa sola peculiarità dovrebbe attestare l’unicità straordinaria della religione ebreo-cristiana, oltre a conferirle il titolo di unica e vera professione di fede. Poiché secondo la fede giudeo-cristiana, l’essere umano è stato creato ad immagine di Dio, diventa quindi evidente che ogni creatura umana abbia un valore intrinseco, un valore proprio, indipendente dall’apporto del suo operato. Come l’Eterno Creatore: Egli è, perché è, e non perché opera in modo divino a favore della sua creatura. E’ questa caratteristica che, più di ogni altra rende l’essere umano simile a Dio, che rende l’io sono della personalità umana simile all’IO SONO della personalità divina.

 

Una simile riflessione potrebbe essere il frutto di un ragionamento filosofico, ma è Cristo Gesù stesso, quale Dio, ad averlo messo in evidenza. In una ennesima conversazione con i giudei, Gesù rispose loro: "Non è scritto nella vostra legge: "Io ho detto: Voi siete dèi"? (Giovanni 10:34). 

A definire la creatura umana una divinità, non è stato dunque l’uomo stesso, ma la medesima Divinità che lo ha creato. E se lo ha detto l’Eterno Dio, l’uomo è veramente una divinità. In definitiva, l’IO SONO, COLUI CHE E’, definisce colui che ha creato un essere che è nientemeno che un io sono, una personalità ad immagine della personalità di Dio. L’UOMO (maschio e femmina) che Cristo ha creato, è talmente simile a Dio che ha la possibilità, non solo di essere perché è, ma anche di opporsi al suo Creatore, al punto di avere l’opportunità di scegliere di essere colui che è separato dal suo Creatore. Questo fa della creatura umana un dio simile al Dio creatore, l’io sono dell’essere umano simile all’IO SONO dell’essere Divino, capace di essere autosufficiente, somigliante a Dio e persino in grado di contrapporsi a Dio. 

Questa è la grandezza della creatura umana, la quale, però, contemporaneamente possiede anche la più tremenda libertà da gestire, dato che ha l’arbitrio di trasformarsi in un elemento infernale. Molte persone non hanno ancora compreso che il luogo di perdizione di cui ha parlato diffusamente Gesù Cristo, non è un’invenzione dei religiosi cristiani per spaventare le persone, né il frutto di una loro speculazione teologica, e tantomeno è una dottrina, ma semplicemente il luogo dove l’essere umano, con la sua identità, l’io sono, continua ad esistere ed esprimersi lontano e separato da Dio, dall’IO SONO, COLUI CHE È. 

Chi non accetta il metafisico, troverà che queste riflessioni non lo riguardano, ma chi crede in una vita che continua oltre la tomba, deve rendersi conto che in definitiva la condanna per l’uomo non è causata dalla sua appartenenza ad una razza perduta, dal peccato che ha compiuto, o dall’ignoranza, ma dalla presa di posizione che assume nei confronti del Creatore, di Gesù Cristo (Giovanni 16:9). Proprio perché gli uomini sono divini e figli dell’Altissimo (Salmo 82:6), proprio perché nessuna creatura in cielo e sulla terra è stata creata ad immagine della Divinità come la razza umana, questi hanno l’onore e il diritto di essere trattati secondo la scelta responsabile del loro io sono, andando in un luogo dove la presenza della Divinità non li disturba, o meglio, dove la mancanza della presenza della Divinità sarà la loro condanna (2Tessalonicesi 1:9).

 

Una volta presa coscienza di essere perché si è, l’esistenza si vive in una dimensione tutta nuova. Non sarà più la filosofia cartesiana per cui cogito ergo sum, cioè, io penso, dunque esisto, ma sum ergo cogito, esisto, dunque penso. 

La definizione di Descartes vuole mettere in enfasi che se vi fosse il dubbio della propria esistenza, questa è demolita dal fatto che siamo esseri pensanti, ma a mio avviso ciò che ci valorizza è il fatto di sapere che, poiché siamo, poiché esistiamo, come risultato di questa realtà, noi pensiamo. Noi pensiamo, amiamo, odiamo, scegliamo, perché siamo una identità, una personalità, un io sono; non siamo individui, un io sono, perché pensiamo, amiamo, odiamo, scegliamo. 

La mia esistenza è valorizzata solo dal fatto che io esisto, non dalla relazione che ho con il mondo in cui vivo. Certo! La mie caratteristiche personali sono espresse mediante il rapporto che ho con il mondo, con le altre persone, con Dio, e per questo possono essere apprezzate o condannate, ma sono le caratteristiche della mia personalità che sono rifiutate o apprezzate, ma non possono essere indirizzate a me come individuo. Nessuno può, e potrà mai sdegnare il fatto che io esisto. Neppure Dio. Perché sono stato creato a Sua immagine. Disprezzare la mia esistenza, equivale a disprezzare l’esistenza di Dio, perché io sono divino creato ad immagine di Dio. "Guai a colui che dice a suo padre: "Perché generi?", e a sua madre: "Perché partorisci?" (Isaia 35:10).

 

Non credo che possa esservi, in questo mondo, un pensiero più insondabile del fatto che la creatura umana venga all’esistenza dal nulla, e che, da quanto ne sappiamo, l’incontro di due gameti dia origine non solo ad un corpo, ma anche ad un essere con la caratteristica intrinseca divina dell’individualità. Per questo, la nostra esistenza ha tutti i diritti di essere vissuta pienamente in tutti i suoi aspetti: amare e odiare, ridere e piangere, nascere e morire, costruire e abbattere, parlare e tacere.

 Dato che noi esseri umani veniamo all’esistenza senza aver precedentemente aver fatto alcuna esperienza, dobbiamo prendere ogni esperienza terrena come dono inestimabile per essere partecipi e simili a Dio in tutto, poiché il tutto è in Dio. In questo modo, il mio essere, l’io sono, non rimane una entità staccata dalla realtà, ma compartecipe dell’IO SONO, COLUI CHE E’. JHWH Dio, che ci ha creati divini a Sua immagine e somiglianza, non era in obbligo di farci partecipi anche delle sue caratteristiche, ma, nel suo amore ha voluto donarci un’esistenza che potesse farci comprendere non solo chi Lui è, ma anche renderci partecipi delle sue relazioni. 

Non ci rimane che adorare Gesù Cristo, quale Figlio di Dio, perché egli è l’IO SONO, COLUI CHE E’, che ha un rapporto di Figliolanza con il Padre e lo Spirito Santo, affinché chiunque crede in Lui abbia il diritto di diventare figlio di Dio a propria volta, e abbia una relazione eterna, immutabile, con tutta la DEITA', simile alla sua. Questo è possibile solo perché ci ha creati esseri divini, con una nostra personalità, con una individualità, una libertà, una coscienza, un io sono.